Il nuovo numero della nostra rivista, in uscita per il 25 gennaio, conterrà tra le altre cose (su cui per ora manteniamo un pochino di riserbo, tanto per creare un pizzico di suspance) una intervista ad Andrea Angiolino curata da Alberto “Rill” Panicucci. L’intervista ripercorre la carriera del grande autore italiano, spiega la sua filosofia di design e molto altro ancora. Ecco un frammento, tanto per stuzzicare il vostro interesse…
20 ANNI IN 20 DOMANDE!
D. Vorrei iniziare chiedendoti se un autore di giochi come te aveva, da bimbo, un approccio al gioco diverso dai coetanei, se palesavi le tendenze creative che ti hanno poi reso il game designer che sei. Insomma, da bambino, che rapporto avevi col gioco?
R. Non so se fossi un giocatore diverso dagli altri della mia generazione: penso di no. Ma intanto, senza dubbio ero già un giocatore piuttosto onnivoro ed eclettico. Giocavo a carte, ai vari giochi tradizionali che un bambino può fare ma anche ad alcuni più impegnativi e così anche ai più classici giochi con carta e matita come battaglia navale, l’impiccato, numerino…
I giochi da tavolo erano parte integrante delle nostre giornate: erano un tipico regalo di parenti e amici ma anche delle riviste dell’epoca, dal Corriere dei Piccoli a Topolino e venivano ripetutamente proposti ai compagni, dopo un accurato studio delle regole. I soldatini a cento lire la scatola abbondavano. E si giocava anche all’aperto, in parchi e giardini. I miei cugini di Genova erano imparentati con l’importatore del Subbuteo, per cui a casa loro avevano vari campi e molte squadre acquistati a prezzo di favore e così avevo sperimentato anche quello…
Mancavano solo i videogiochi, benché un mio amico avesse un antidiluviano Pong per la televisione di casa, dove due rettangolini fingevano di essere racchette rimbalzandosi un quadratino-pallina: ma lo usavamo di rado e piuttosto si giocava con le racchette vere del ping-pong o del volano, le mazze del croquet, palle, birilli, biglie da spiaggia o di vetro, fiammiferi, stuzzicadenti, tappi di bottiglia, doppioni delle figurine… Un anno da lupetto mi ha anche dato un prezioso punto di vista su giochi scout e affini, al chiuso e all’aperto, per pochi e per tanti.
Al tempo stesso cercavo anche di essere in qualche modo creativo. Mi piaceva organizzare cacce al tesoro e altri giochi da festa, magari con indovinelli ed enigmi. Come molti, mi sono divertito non tanto a cambiare le regole dei giochi da tavolo esistenti quanto piuttosto a inventarne di nuovi: magari l’ovvio gioco di percorso sul traffico o l’altrettanto ovvio wargame, costruiti con un foglio protocollo a quadretti e una biro. Con i soldatini Atlantic in scala H0/00, cioè alti poco più di due centimetri, avevo poi sviluppato un vero regolamento da wargame tridimensionale per pavimento, con misure in palmi e dita, movimenti e gittate differenziati per i vari mezzi e armamenti, una moneta a testa e croce per la risoluzione dei colpi con un numero di lanci multipli crescente per mitra e mitragliatrici… Insomma, niente di particolarmente originale, ma sicuramente c’era la voglia di creare qualcosa a gusto mio e dei miei compagni di gioco. Non credo però di essere un caso isolato: Dawn Patrol, il gioco di duelli aerei di Mike Carr pubblicato dalla TSR nel 1982, ha una mappa a quadretti perché l’autore lo ha inventato sulle mattonelle quadrate del pavimento di cucina… Chissà quante storie analoghe potrebbero tirare fuori i miei colleghi!
In ogni caso, posso dire che per me giocare era un modo davvero felice di passare il tempo assieme agli altri. Forse per questo ho cercato di continuare a giocare e a far giocare.
D. Hai iniziato a pubblicare (giochi, ma non solo; il tuo libro su Edoardo Bennato è del 1985) molto presto, già da liceale. Che effetto faceva (a te) e che effetto facevi (a chi avevi di fronte) quando proponevi e ti proponevi? Imbarazzo, stupore, meraviglia…?
R. In effetti ero un po’ stupito del fatto di essere preso così sul serio: quando nel settembre 1982 Sergio Masini ha affidato a Gregory Alegi e me la nostra prima rubrica fissa su una testata nazionale, cioè la pagina di giochi di ruolo sul mitico mensile Pergioco, avevo sedici anni. Nonostante questo a Masini, affermato giornalista e scrittore ludico cui devo molta riconoscenza, io e Gregory eravamo sembrati le persone più adatte per l’unico spazio fisso dedicato a tale argomento sulla stampa italiana. Il mio compiacimento per questo era frammisto a non poca meraviglia.
Del resto, il mio compagno di avventura era quasi mio coetaneo ma già un veterano: Gregory aveva infatti iniziato a scrivere ancor più giovane, pubblicando sulla rivista Storia e Modellismo un wargame tridimensionale a puntate attorno al 1979-1980.
Certo, c’è gente che a sedici anni ha fatto assai di più, nella vita, ma un po’ di spiazzamento l’ho provato. Quando poi hanno iniziato ad arrivare 70mila lire ad articolo che per i miei budget dell’epoca erano una vera fortuna, mi è anche balenato in testa che un giorno questo avrebbe potuto essere un lavoro autentico. Ma mi pareva un sogno poco realizzabile. E quindi ho continuato a occuparmi di giochi solo per hobby, iscrivendomi a Economia e Commercio in vista di un lavoro ‘vero’ per mantenermi.
(continua…)
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